International Laboratory
of Architecture
& Urban Design

La scatola di Connie
Per ricordare Etra Occhialini (31 marzo 1951-3 luglio 2019)

Nella sua stanza,  purtroppo vuota da tanti mesi, c’è una foto di Connie  (Etra Occhialini, chiamata Connie dagli amici) durante uno de laboratori ILAUD a Venezia ,negli anni ’90. Ci sono Giancarlo De Carlo, Donlyn Lyndon, Peter Smithson (maschi alfa), che  ascoltano degli studenti; lei (femmina alfa e beta al tempo stesso) sta in disparte, intenta a  pensare alla complicata baracca organizzativa che deve tenere in piedi per varie settimane; ai ragazzi di paesi diversi, con le loro esigenze esistenziali  da soddisfare; alle idiosincrasie dei docenti amici-nemici da contenere; agli  impegni da affrontare  appena finito il corso. Da quasi vent’anni Connie mandava avanti l’organizzazione dell’ILAUD, che non era cosa semplice: bilanci da far quadrare,  università  di  varie parti del mondo da coordinare, amministratori locali da tener buoni, studenti  da far lavorare, rapporti umani complicati: fatti di simpatie, amori, collaborazione, ma anche di competizioni, rifiuti e tensioni. E poi la preparazione degli Yearbook e la loro impostazione grafica, con tutta la documentazione relativa. Inevitabilmente una macchina complessa, ricca di persone – docenti e allievi – con forti personalità e notevoli intelligenze.  Il punto di riferimento in tutto questo sistema, governato prevalentemente da maschi, era Connie, con la sua grazia e intelligenza, a cui si univano un grande spirito critico e autocritico, molta determinazione e indipendenza di giudizio. Quando, con la scomparsa di De Carlo, mi trovai  d’improvviso ad essere coinvolto  in un progetto che avevo vissuto solo di striscio, il punto di riferimento per portare avanti l’ILAUD e adeguarlo ai tempi nuovi, a una dimensione culturale e a compiti diversi non poteva che essere Connie. Con Giancarlo era stata il vero spirito dell’ILAUD…anche se la “legacy” ormai le pesava non poco e voleva voltar pagina.

Sotto la fotografia nel riquadro appeso al muro  c’è una pila di scatole di cartone colorate, piene di fogli, cartelle, buste, cd, foto, cartoline, appunti, schizzetti, ricevute, ma anche alcuni  gialli (Connie era una giallista arrabbiata), una raccolta di scritti di Montaigne e Du coté de chez Swann. Ci sono anche  le fotocopie a colori di quindici poster che aveva fatto per i  ragazzi delle scuole (e i loro genitori) di un singolare paese di minatori della Maremma toscana, dove inaspettatamente erano nati progettisti della NASA, ministri di governi italiani, imprenditori di successo, importanti  accademici internazionali, delle più diverse discipline.

Connie era fatta così. Da un lato teneva rapporti amichevoli ed affettuosi con Alison e Peter Smithson, Balkrishna Doshi, Charles Moore, Aldo Van Eyck o Sverre Fehn; ragionava sul futuro dei villaggi lacustri attorno a Suzhou; lavorava per migliorare le condizioni di vita nella vecchia  Delhi, progettava pezzi di città a Valparaiso, a Montevideo o a Kanazawa,  difendeva l’oasi di Gerico e  affrontava le difficoltà del post-apartheid nelle township o nel District 6 di Cape Town: ma poi passava intere  giornate  ad aiutare piccoli paesi dell’ Appennino o dei Nebrodi o di gettarsi a fare i fuochi d’artificio in Piazza del Campo a Siena.  Aveva sempre voglia  di viaggiare e di conoscere; non aveva autoindulgenze – quello che doveva essere fatto doveva essere fatto comunque. La primavera di un anno fa, quando ormai stava malissimo, non aveva saltato una sola lezione o revisione a Ferrara.  Prendeva il treno la mattina molto presto e tornava la sera, distrutta dalla stanchezza,  a Milano,  perché non ce la faceva a passare le notti sveglia, tra i dolori, sola in una camera d’albergo.

Era stata una perfetta ragazza della Milano intellettuale degli anni 1960. Figlia unica di due protagonisti della fisica mondiale  –  Giuseppe (Beppo) Occhialini e Constance  Dilworth; – cresciuta in una casa di professori  dell’Università statale in via Argonne; studente del  Parini (con attiva partecipazione nella vicenda della “Zanzara”). Appena possibile,  aveva conquistato la propria libertà e autonomia di vita; un primo amore per la fotografia e la grafica, con studi serali all’Umanitaria, con Albe Steiner e poi praticantato e attività professionale con Mulas, Pieracini, Iliprandi, Provinciali. Dopo qualche anno di esplorazioni intellettuali ed esistenziali  si era iscritta, tra mille dubbi,  ad Architettura all’IUAV e aveva cominciato il lungo impegno all’ILAUD,   l’insegnamento in varie università italiane e straniere e   una  professione da architetto e  urbanista.

Per tutta la vita conserverà un carattere indipendente, curioso, ironico, pronto a sempre nuove esperienze intellettuali, ma a volte anche spigoloso, se riteneva che l’interlocutore fosse sciatto, impreciso, poco affidabile. Era un modello di grande fascino per le sue allieve e, ovviamente, in molti all’ILAUD ne erano innamorati.

Tra le scatole ce n’è una, la  più grossa, piena zeppa di cartoline, biglietti, disegnini, foto mandate a Connie dagli amici e colleghi dell’ILAUD, ma soprattutto da Peter  e Alison Smithson  che la consideravano allieva, amica e confidente. Sono una incredibile testimonianza di quella mescolanza di humor, cattiveria e tenerezza, affetto, stramberia, genialità  che solo certi inglesi riescono ad avere e di cui gli Smithson erano maestri. Connie stava al gioco, appreso dalla sua mamma londinese – la geniale Constance  Dilworth  –  e quella scatola  ci fa capire quanto fosse complessa anche lei.

In Peter Smithson at ILAUD, l’ultimo libro curato nel 2016 da Connie (non dimentichiamo che per 30 anni , dal 1976, aveva prodotto gli Yearbook dell’ILAUD,  che raccolgono  contributi dei più importanti architetti degli ultimi decenni del secolo scorso) c’è una descrizione del suo percorso di crescita intellettuale  che è la più  diretta ed esplicita testimonianza di come era, cosa le interessava fare e cosa le importava trasmettere. Lo traduco integralmente.

“Quando ho cominciato  con l’ ILA&UD – mi sembra corretto dire così, visto che il mio impegno all’ILAUD iniziò con la sua fondazione nel 1976 – ero giovane. Non ero un architetto e, essendo giovane ero anche molto ignorante. Avevo tutto il tempo per imparare – essendo giovane – e per capire – essendo ignorante – e, poiché non ero un architetto, non avevo ancora i pregiudizi culturali del giro degli architetti. Così, ho preso tutto quello che ho potuto dalle persone che ho incontrato; ho imparato la necessità del rigore, della passione e della competenza. Da PS (Peter Smithson) ho imparato:

–  a dare significato anche a quello che non viene normalmente considerato importante, o  semplicemente non è  preso in considerazione;

– ad essere coerente con la linea di ricerca che si sta seguendo; anche  se la ricerca può essere lunga e apparentemente infruttuosa;

– a ridere di se  – e anche degli altri – e a non prendersi sul serio, essendo al tempo stesso fortemente concentrati e impegnati su quanto si sta facendo. Essere ironici – soprattutto rispetto a  se  stessi – non è sempre facile; ma è qualcosa di cui abbiamo disperato bisogno, soprattutto in tempi di incertezza e scoramento.”

Connie poi entra nel merito di alcuni aspetti specifici della progettazione appresi da Smithson  e dai laboratori dell’ILAUD: l’importanza della scala nel progettare e nel leggere un’architettura, perché permette di  esprimere anche cose minori e di vedere la realtà con  prospettive diverse; la necessità di esplorare il contesto in cui viviamo; l’utilità  di viaggiare, con la curiosità di scoprire altre situazioni, di godere di fatti minori e semplici.

Scrive “ I probably started to understand that serious matters should be treated very very lightly”: una  straordinaria  espressione  di understatement in un mondo pieno di gente che ha  di se un’ altissima (quanto ingiustificata) opinione.

L’attenzione per questi  aspetti si ritrova anche nei suoi progetti più impegnativi; ne ricordo solo alcuni. La conservazione dell’oasi di Gerico (quella che gli ebrei, dopo quarant’anni di disperato vagabondare nel deserto,  vedono con Mosè  dalle colline della valle del Giordano e  ritengono anticipazione della terra promessa ), che Connie progetta per il Jericho Master  Plan,  è fatta di riscoperta , valorizzazione, messa a sistema, reinvenzione di ruolo di piccoli elementi fondamentali del sistema idrico, della vegetazione, dei percorsi, del paesaggio. E’ la restituzione a un territorio di significati importanti, sia dal punto di vista del paesaggio che di vicende storiche molto importanti. Lo stesso vale per il lavoro che fa riemergere memoria e  significato delle 13 Hongs a Canton (oggi Guangzhou): il primo insediamento occidentale nell’ Impero cinese Qing, o il rapporto tra l’ antico tessuto urbano, fatto di case di mercanti e samurai, e la natura che lo circondava a Kanazawa, importante città storica  del Giappone. Lo stesso lo ritroviamo nel progetto per il completamento dell’insediamento residenziale a Mazzorbo, nell’isola di Burano, il suo ultimo lavoro da architetto. Connie ripropone la stessa filosofia nel progettare il rapporto con gli edifici ideati  anni prima da De Carlo e nella nuova raffinata articolazione tipologica per una committenza sociale che in questi

anni è profondamente cambiata , nei suoi modi di vita e nella sua cultura. Molte di queste sue curiosità, esercizi di lettura, capacità di recuperare significati perduti si trovano infine nel lavoro che Connie sviluppa,  prima nel seminario e  laboratorio internazionale ILAUD “ Nicolò’s Extension Redux – a Challenge for Future Ferrara” tenuto a Ferrara nel 2015 e poi riprende nel suo corso di Urbanistica del 2016. Il suo saggio “L’Addizione dai significati sottratti, Un’indagine sull’Addizione di Nicolò”  incluso  in La Ferrara di Nicolò III d’Este (Chiara Guerzi ed., 2020, Verona: QuiEdit) che è stato appena pubblicato, illustra metodo e risultati  di un lavoro di analisi e progettazione profondamente originale su un’area di grandissima importanza nella storia ferrarese ( e in quella del primo Rinascimento in Europa ); un approccio del tutto diverso  dalla lettura convenzionale della città fatta a suo tempo  da Zevi. La “ragazza ignorante” del 1976, di strada ne aveva  fatta molta  e la sua “leggerezza” nel cercare significati perduti, o volutamente dimenticati, ci lascia una piccola rivoluzione metodologica, tenuta gelosamente riservata, come riesce a fare solo chi pratica davvero (anche se con un sano pizzico di snobismo)  l’understatement. E’ importante leggerlo.

Ho avuto la fortuna di lavorare con Connie  in stretto e quasi quotidiano contatto per quindici anni

e la sua perdita mi ha segnato profondamente. Con l’ILAUD abbiamo fatto di tutto, in tutti i continenti, sempre cercando di tener fede alla linea che lei aveva tracciata per la sua futura attività:

“Questo secolo sta affrontando tre questioni  che ci costringono a riflettere  seriamente sul

nostro  futuro e ad anticipare  nuove proposte per l’habitat umano, le città ed il territorio.

L’ambiente è sempre più degradato, con terribili conseguenze per la vita umana.

La maggior parte della popolazione mondiale vive in insediamenti urbani che hanno  spesso decine di milioni di abitanti e questa tendenza non sembra rallentare.

Le diseguaglianze nell’uso delle risorse fisiche, delle abitazioni, dell’accesso ai servizi aumentano e non possono essere risolte “naturalmente”.

L’ILAUD  può e deve contribuire  alla soluzione di questi problemi fondamentali.”

Appare  inevitabile (cari maschi e femmine che leggete queste righe) che il miglior modo di ricordare Connie Occhialini  è realizzare quello che aveva in mente. Diamoci da fare.

 

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